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ArribaAbajo Cultura e attualità nella Celestina454

Guido Mancini


Universidad de Pisa

Nel suo celebre libro sulla Celestina Rosa Lida de Malkiel definì l’opera come una commedia umanistica, non novella dialogata né dialogo retorico455. I suoi ricorsi teatrali -come le didascalie, l’uso del monologo, gli a-parte, ecc.- confermano la sua attribuzione a un genere che ebbe la sua vitalità lungo tutto il periodo umanistico e che lasciò tracce sensibili anche quando la commedia erudita della fine del Quattrocento e del Cinquecento lo sconfisse decisamente. Su questa base accuratamente documentata dalla Lida è possibile prendere l’avvio per qualche considerazione su alcuni dei precipui problemi della famosa Tragicomedia.

Come si sa, la produzione che con termine generico si chiama teatro umanistico è essenzialmente italiana ed ha tono decisamente culturale sia per i suoi autori -a volte eruditi ben noti- sia perché si dirige a un pubblico capace di intendere non solo le risonanze delle opere di   —218→   Terenzio, di Plauto o di Seneca, ma anche la trasposizione ad un livello eccezionale ed esemplare di avvenimenti particolarmente emozionanti della vita del paese o personaggi che, per i loro vizi, si deformano grottescamente. Così, per esempio, il riflesso di gravi avvenimenti e, ancor più, di profonde e immediate passioni politiche animano la Ecerinis di Albertino Mussato (1314) che, avvivando l’odio contro il tiranno antico, Ezzelino da Romano, chiaramente allude al tiranno contemporaneo, Cangrande della Scala. Violenta, invece, e sfacciata è la beffa con cui si fa scherno di un prete nello Janus sacerdos, così como varia e acutamente sfumata è, nella Philogenia, la storia d’amore tra Philogenia e Epifebo con l’intervento della mezzana Servia e della sua amica Irzia456.

Questo teatro umanistico rivolto all’attualità, nel riproporre temi e figure della vita studentesca, -a volte perfino nella loro cornice cittadina- ha uno spirito ironico e polemico contro la cultura uffiale. È una polemica bonaria che quasi sempre si esaurisce nel sottolineare alcuni aspetti esagerati o stereotipati che nella loro reiterata caratterizzazione offrono una facile possibilità di un ingigantimento in tono satirico. Il Paulus può, quindi, considerarsi il «primo documento della disposizione intellettuale del mondo goliardico -e soprattutto delle Università di Pavia, di Bologna e di Padova- e cioè di un ambiente evoluto che non esita a giovarsi dei propri privilegi d’autonomia per proporre una libera interpretazione della realtà, fuori d’ogni moralismo e ogni presupposto d’imitazione erudita...».

Il Paulus era scritto «ad iuvenum corrigendos mores e tuttavia realizzata con spirito aderente ai costumi della vita studentesca che viene riprodotta in scene vivaci e piene di movimento, senza che l’autore si sottragga all’eventualità di descrivere situazioni ardite, como quella in cui si illustrano gli accorgimenti di cui si servono le donne per fingersi   —219→   vergini, dove in ogni caso il discorso è ricondotto al fine di indirizzare i giovani alla prudenza opportuna...»457.

In questa, come altre opere dello stesso genere, l’uso del latino «non assolve la funzione di una veste aulica adatta a qualsiasi contenuto, bensì quella di un linguaggio conglutinato alla situazione, all’indole dei personaggi e al loro comportamento, per cui l’autore non ha bisogno dei modelli di Plauto o di Terenzio, né delle loro strutture metriche e sceniche»458.

In effetti Plauto e Terenzio ancora non erano arrivati ad essere i dittatori assoluti della commedia: al contrario, c’era una certa intolleranza nei loro confronti, così che l’autore di Aetheria scrive nel prologo:


Novus hic poeta esta, et novam scripsit fabulam
nemini audita, nemini scriptam viro,
neque peregrinam, ut solent poetae,
set vestratem, is qui est vestras, scripsit fabulam;
romanam italus fecit poeta comoediam.
Nam neque ullam habuit atticam is virginem
raptam parentibus infantem parvulam,
quam patri grandem aut frati posset reddere,
neque, si ullam habuisset, id fecisset. Melius
invenire existimat quam alienam scribere.
Et si difficile est magis, ac longe magis
maiorem putat gloriam futuram sibi
suis uti quam alienis, ut faciunt
qui graecas fabulas vertunt in latinas
quasi non siet italis ingenium
aut his non liceat novas facere fabulas459.



Nel prologo della sua Cauteraria Antonio Barzizza si scusa di non aver scrito in versi per non essere accusato di presuntuoso imitatore di Terenzio o inventore di un nuovo stile di comporre commedie. Come poi farà Rojas, anche egli afferma di aver composto la sua opera in quindici giorni, rubando il tempo al più importanti studi universitari:

... Quanta potui celeritate rem ipsam descripsi, ut cum angustiis temporum consulerem tum etiam rei, propter quam ad hoc florentissimum studium   —220→   accessise, opera darem... rem ipsam tam paucis diebus elimate scribi non potuisse. Nam vix dimidium fore mensem, quod huiusce rei fama divulgata est... Et profecto quam plures iam dies emanarant, priusquam res ipsa ad me delata foret460.



Coincidenza fortuita tra il Barzizza e il Rojas o comune ripetizione di un topico? E si ricordi ancora, in proposito, quanto afferma il Perosa:

La comedia è considerata dagli umanisti... come un’attività marginale, di secondaria importanza. E’e rimane un «unicum» legato al periodo della giovinezza: nugae che in età più matura -come dichiara il Vergerio- è bene repudiare e sostituire con occupazioni più serie461.



Infine, da un punto de vista puramente esterno, è opportuno segnalare come la commedia umanistica sia libera da ogni particolare divisione in atti e scene. Se la Philogenia di Ugolino Pisani, nonostante la sua notevole ampiezza, non presenta alcuna ripartizione, la Crysis di Enea Silvio Piccolomini è divisa in diciotto atti. L’una e l’altra coincidono, tuttavia, nella vivacità del mondo circonstante sia quello borghese e popolano della Philogenia, sia quello curiale e cortigiano della Crysis462.

Ho voluto sottolineare la particolare adesione della commedia umanistica agli interessi dell’attualità, soprattutto quelli culturali, perché è in questo ambito (costume, spirito, atteggiamento mentale) che bisogna ricercare il contributo che essa dette alla Celestina, più che nella somiglianza di personaggi e temi narrativi. Se anche è vero che la commedia elegiaca era ben conosciuta nell’epoca e nell’ambiente del Rojas e che il Pamphilus o Baucis y Traso presentano analogie con la Tragicomedia, la loro influenza non può andare oltre motivi contenutistici divenuti, per giunta, quasi topici: manca loro quella capacità di attualizzare l’avvenimento con il gusto di riflettere alcuni momenti o aspetti   —221→   della vita con la vivacità di una cosa immediatamente sentita e con uguale vivacità rappresentata463.

Vero è che, per quanto si riferisce alla Spagna, non si possiede una documentazione che provi l’esistenza di commedie umanistiche anteriori alla Celestina. Justo García Soriano ricorda che nel título LXI dello Statuto dell’Università di Salamanca si stabilisce la rappresentazione annuale di commedie di Plauto o di Terenzio, ma il documento è tardivo -1538-. Per gli anni anteriori García Soriano si limita a supporre che simili rappresentazioni studentesche «debieron estar en uso desde muy antiguo»464. Ampia e ben nota è, invece e la documentazione del fervore umanistico che invase la Spagna nella seconda metà del Quattrocento. Qui basti ricordare soltando la presenza di Nebrija a Salamanca dal 1475 e che nel 1487 andò nella stessa città anche Pedro Mártir de Angleria, nomi chiaramente vincolati all’Umanesimo e, quello che ora più interessa, alla diffusione del latino. A Salamanca, infatti, non si parlava molto in latino se ancora nel 1512 ci fu bisogno di una solenne notifica «que todos fablen latín intra scolas, así lectores como oyentes, so pena de excomunión late sententiae»465. La stessa norma viene ripetuta nello statuto dell’Università nel 1538 e, con maggiori penalità, nel 1561466, specificando, sia la prima che la seconda volta che i lettori   —222→   «sean obligados a leer en latín, y no hablen en la cátedra en romance, excepto refiriendo alguna ley del reyno, o poniendo exemplo». Ciò, credo, autorizza a non meravigliarsi troppo se la Celestina non fu scritta in latino come le commedie umanistiche italiane, ma in castigliano, che, proprio come il latino di quelle, era la lingua correntemente parlata nell’Università e che indulgeva tanto agli ornati retorici quanto alla tendenza di reflettere modalità espressive popolari o popolareggianti. Non a caso Menéndez Pidal definì la Celestina -riferendosi al suo linguaggio- una «obra de transición a la sencillez».467

Nell’ambito delle influenze umanistiche italiane è interessante notare ancora l’accettazione molto rapida che ebbero la Historia Baetica e il Fernandus servatus di Carlo e Marcellino Verardi da Cesena, opere che erano state rappresentate a Roma nel 1491 e 92. L’Historia Baetica fu pubblicata a Salamanca già nel 1494. È facilmente presumible che il successo fu determinato dallo stesso argomento ispanico (la presa di Granada e l’attentato fatto a Siriglia a Fernando il Cattolico), ma anche così, resta l’avvicinamento a quella corrente che, pure in tono severo, riproponeva le modalità di una drammaturgia ad argomento attuale.

Infine, mette conto rilevare che proprio a Salamanca il bachiller Juan Quirós negli ultimi anni del secolo «leggeva» il Philodoxus di Leon Battista Alberti, opera che fu pubblicata nella stessa città nel 1500 a cura dello stesso Quirós, il quale ne sarebbe stato esortato dagli alunni a cui l’aveva fatta conoscere «ne tam pulcherrimum opus et hic omnibus incognitum apud nos amplius latere permitterem»468.

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Il Gilman presenta con efficacia il quadro di questa Salamanca culturalmente aperta ed entusiasta, arrivando a dire che:

Ir a Salamanca era hacer un viaje a un país extranjero, país que, a pesar de su pequeñez (Lucio Marineo Sículo calcula la población estudiantil de tiempos de Rojas en siete mil) estaba decidido a mantener su prestigio e independencia... La presencia en Salamanca (de Rojas) supuso precisamente un reajuste a fondo del comportamiento social, ya que la Universidad era un estado conscientemente autónomo de ciudadanos naturalizados, un estado que se deleitaba en el retrato de sí mismo...469



Sempre secondo il Gilman, a Salamanca c’erano molti conversi anche tra gli insegnanti e s’era costituita una specie di zona franca dove non arrivavano o si attenuavano di molto gli opprimenti problemi, le angoscie e i complessi dei conversi. Sta di fatto che la psicologia del converso non si manifesta in maniera rilevante -e tanto meno drammatica- nella Celestina. Si potrebbe pensare che la mancanza in questa del violento anticlericalismo che caratterizza tradizionalmente la commedia umanistica italiana si debba alla naturale prudenza di judío converso, ma proprio lo sfacciato anticlericalismo di un Janus sacerdos (rappresentato a Pavia nel 1427) non conviene certo a una Spagna della fine del secolo non solo per complesse ragioni ideologiche, ma anche, semplicemente, per un orientamento estetico diverso che non ammette la compiacenza dell’osceno e che respinge ora un Janus come più tardi respingerà un fra’Timoteo della Mandragola.

La Celestina si cala profondamente nell’ambiente della sua epoca. Si potrebbe aggiungere che, como opera nata in un periodo di vacanze, quasi come un divertimento, si rivolge essenzialmente ad un pubblico universitario. La ben nota vicenda di un amore alla cui attuazione concorrono servi, mezzane e prostitute e che, a differenza di quanto acade   —224→   in racconti simili, finisce male, si ironizzano le più note manifestazioni e tendenze culturali, alcuni aspetti dell’abituale moralismo, alcune delle più appariscenti manifestazioni popolari. Perciò si può ripetere ancora col Gilman:

Sería equivocado comparar La Celestina con la comedia humanística y creerla tan sólo una imitación medio en broma de Terencio hecha por un estudiante. No obstante este tradicional género académico [...] y la desenvuelta tradición de los escritos universitarios en general, eran esenciales a la única cosa importante que Salamanca tenía que enseñar a Fernando de Rojas: no las leyes del país, sino la libertad para ver y expresar y poder sentir la ironía y la furia que llevaba dentro470.



Con questa libertà Rojas esprime l’«ironía» con cui guarda il mondo in genere e lo fa attraverso la satira di alcune correnti letterarie e di alcune convenzioni.

La satira più appariscente è quella dell’amor cortese che si sviluppa sia sul piano dell’azione, sia su quello del dialogo. Protagonista assoluto ne diventa Calisto che, secondo gli statuti dell’amor cortese, deve condurre l’azione amorosa e, conseguentemente, manifestare la sofferenza causatagli dalla ritrosia della dama. Ma Calisto che, nella prima scena, si era mostrato del tutto ossequiente al codice cortese, non appena si allontana da Melibea, travolge deliberatamente quegli stessi canoni, quasi mostrando ciò che si celava sotto le sue eleganti espressioni e i suoi delicati atteggiamenti. Contravviene, quindi -in una sincerità comportamentale tanto effettiva quanto era stato convenzionale il suo colloquio con la fanciulla- alle fondamentali norme del codice galante. Non osserva assolutamente il segreto intorno al suo amore (immediatamente ne parla ai servi e poi a Celestina); non è affatto puro nella sua passione, ma si sforza in ogni modo di ottenerne la realizzazione sino a ricorrere allo strumento più volgare, quello della mezzana. La conclamata sofferenza si riduce ad insofferenza dell’attesa; la sua religione d’amore si converte in uno spasimo di desiderio471. In forma più ridotta, altrettanto avviene per Melibea vista nella sua pratica realtà   —225→   borghese, e portata a contravvenire con notevole facilità a quel recato che la cortesia le imporrebbe come regola essenziale.

Un siffatto gioco di apparenza-realtà si esaspera in quella che si potrebbe chiamare la tecnica dei ritratti contrapposti o la presentazione dei diversi punti di vista: Melibea descritta da Calisto472 e da Elicia e Areusa473; Calisto presentato come un Apollo da Celestina e considerato un mentecatto da Sempronio474; Celestina denigrata da Pármeno475 ed esaltata da Calisto476. E come già Sempronio aveva fatto da contrappunto all’elogio di Melibea, così la stessa mezzana stabilisce la contrapposizione tra la sua immagine e la sua realtà477.

Già nel variare dei punti di vista da cui sono considerati Calisto, Melibea e Celestina è un attacco a un ideale non più, certo, accettato e accarezzato, ma considerato come suscettibile, oltre che di critica, di demolizione. Lo spietato rovescio della medaglia è presentato, inoltre, da persone che, come Sempronio, Elicia e Areusa, appartengono ad un mondo che non ha illusioni, che vive, anzi, in maniera abietta. La tanto sottolineata opposizione tra nobili e plebel potrebbe facilmente intendersi come opposizione tra idealizzazione e realtà. Ma, in questo caso specifico, l’intervento dei plebei rende la demistificazione dell’amor cortese più totale e definitiva poiché non si oppone ad esso alcuna esemplarità che possa additare un riscatto o una sublimazione. La verità di Calisto e Melibea viene denudata irriverentemente e senza alcuna possibilità di attenuazione. In caso, si potrebbe dire che ad un parossismo se ne oppone un altro con la volontà di un accostamento violento che, prima di ogni altra reazione, genera la risata. A Sempronio e a Elicia gli atteggiamenti di Calisto e Melibea appaiono smisurate deformazioni della realtà. Le loro lagrime e i loro languori potrebbero avere anche un fondo di sincerità, ma sono abnormi e, quindi, ridicoli. Il lettore (ma meglio si direbbe lo spettatore) parteggia per Sempronio ed Elicia e non per i due innamorati; condivide la loro opposizione perché la loro denuncia   —226→   poggia su dati di fatto oggettivi, o che, per lo meno, sono stati mostrati come tali. Se qualche pietosa riserva si potrebbe fare per Melibea (e, si noti, più in virtù dei suoi aspetti borghesi che per i suoi atteggiamenti di dama cortese; ossia sempre per un riferimento alla realtà più normale) ciò non avviene, certo, per Calisto che è veramente insensato. Ho detto «veramente» ma lo è davvero o non appare così perché tutto ciò che dice o fa è incessantemente criticato? Tutto di lui è mostrato in una luce di riprovazione; per lui non c’è un solo momento di simpatia. Esponente di un mondo riprovato, subisce anche tutta l’irrisione che suscita quel mondo. La posizione sembra tanto intransigente quanto irreversibile.

L’opposizione della Celestina all’amor cortese è stata comunemente ammessa dalla critica478. Anche in un saggio molto recente si afferma che in Calisto «Rojas esprime il proprio giudizio verso una cultura divenuta paradossale in quanto ha perduto la coscienza delle sue motivazioni intrinseche»479. Se pure è cosi, in realtà negli ultimi anni del Quattrocento la letteratura cortese è ancora fiorente e, se non altro, la pubblicazione di vari canzonieri ne è un indice non del tutto trascurabile; ma ciò che ora interessa è che l’avversione del Rojas non è determinata dall’eventuale esaurimento ideologico del genere, quanto proprio dalle sue manifestazioni di vitalità. A meno che non si vogliano ritenere esagerate anche le ragioni esposte nel prologo dove si rimprovera la stoltezza di un fatto che è di moda e, quindi, molto diffuso, almeno a livelli delle sue conseguenze più pratiche ed evidenti.

La denuncia delle modalità cortesi, siane esse in campo puramente letterario o di comportamento, non viene presentata nella Celestina in modo drammatico, ma alla luce di un buon senso comune che, se pure rende più grave la condanna, le consente il colorito piacevole della parodia. Così, per esempio, l’accusa di eresia lanciata da Sempronio a Calisto che pure si è attenuto, nelle sue focose espressioni, all’esempio di quelle iperboli sacro-profane che erano arrivate alla ben più appariscente parodia di atti liturgici. E così ancora nell’atto VIII quando il servo commenta il poetare del padrone («¡Oh hideputa el trovador!... Trovará al diablo ¡Está devaneando entre sueños!».).

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Sotto la veste del buon senso comune potevano anche insinuarsi attacchi a più especifiche posizioni culturali (per es. quello contro le donne, l’uso di forme sillogistiche e sfoggi retorici da parte dei servi, ecc.), ma sono quasi aggressioni occasionali che, se pure si innestano nella critica più ampia, e la vivacizzano, non arrivano a costituire un motivo centrale dell’opera.

Calisto muore cadendo da una scala. Si può pensare facilmente alle scale cantate dai poeti dei canzonieri. Anche Jorge Manrique aveva scritto:


Estando triste, seguro,
mi voluntad reposaba,
cuando escalaron el muro
do mi libertad estaba.
A escala vista subieron
vuestra beltad y mesura,
y tan de rezio hirieron
que vencieron mi cordura480.



Ora la scala non è simbolica, ma materiale e non serve per salire al cielo dell’amore, ma per cadere. Calisto cade per aiutare Sosia temendo che lo attacchino: unica volta in cui si è preoccupato dei suoi servi: non si era nemmeno turbato alla notizia dell’orribile morte di Sempronio e Pármeno. Muore interrompendo il suo convegno amoroso e per una casualità banale. La caduta è così esageratamente violenta (specie se si considera che la scala non doveva essere molto alta) che la sua testa si spacca in tre parti come un melograno maturo. Sosia e Tristán si affrettano a raccogliere «esos sesos de esos cantos» e li mettono insieme «con la cabeza del desdichado amo nuestro». L’immagine dové piacere a Rojas che la ripete quando Melibea racconta a Pleberio l’accaduto: «De la triste caída sus más escondidos sesos quedaron repartidos por las piedras y paredes»481.

Per caso Calisto s’era incontrato con Melibea; per caso muore. Per una falsa concezione dell’amore aveva vissuto e delirato; per un falso timore muore. Il contrappasso diventa violentamente ironico.

Nella sua libertà spesso anche audace la commedia umanistica aveva insegnato questo modo di aggredire giocondamente il pubblico immettendolo,   —228→   per questa via, in una eventuale discussione o presentando i motivi di una possibile polemica. La lunga moda della cortesia favoriva il desiderio del nuovo, di una prospettiva più ampia e vitale, libera da schemi culturali troppo rigidi. Fra pocha anni Amadís irromperà con tutta la carica delle sue favolose imprese, dei suoi sogni, dei suoi elementari sentimenti, travolgendo l’immobilismo dei vari prigionieri d’amore e usando le raffinatezze cortesi come un elemento puramente decorativo.

La satira dell’amor cortese non coinvolge Melibea. Solo Elicia e Areusa la deridono apertamente, nel feroce ritratto che ne fanno, per i suoi presunti atteggiamenti da gran dama. Tuttavia, all’origine della reazione delle due donne è l’elogio acutamente moderato di Sempronio: agli stessi occhi del servo iconoclasta Melibea è semplicemente graciosa y gentil, in efficace contrapposizione a Calisto sbrigativamente ma drasticamente definitivo este perdido de nuestro amo.

In effetti, il modello a cui può ricondursi la figura della fanciulla non è facilmente rintracciabile nella produzione canzonieristica dove, molto raramente, interviene la dama e, in ogni caso, con il suo esasperato recato e la sua durezza nei confronti dell’innamorato. La satira brutale che di queste dame coxquillosicas fa Celestina nel terzo atto e che allo stesso Sempronio appare esagerata, si riduce, per quanto riguarda specificamente Melibea, al più generale principio «porque sé que, aunque al presente la ruege, al fin me ha de rogar...»482. Ed in effetti, solo nella scena iniziale Melibea adotta atteggiamenti ed espressioni adeguate al codice cortese, apparendo poi subito in una realtà più dimessa, in cui trova spazio umano la sua crescente passione. Il suo iter psicologico è piuttosto semplice: dall’iniziale riserbo, alla succesiva fantasia amorosa che la rende incline ad accogliere le occasioni fornite da Celestina, al cedimento, all’esplosione affettiva e sensuale e, infine, al suicidio. Proprio la semplicità e l’intensità di questo processo fanno pensare alla novela sentimental che, per ripetere una celebre definizione di Menéndez Pelayo483, è «novela íntima y no meramente exterior», i cui autori si compiacevano «en seguir el desarrollo ideal y hacer descripción y anatomía de los afectos de sus personajes». E, naturalmente si pensa alla   —229→   Fiammetta e all’influenza che questa ebbe sulle novelas sentimentales spagnole. Ma più che alla sottile rete di possibili derivazioni, si pensa al carattere di Fiammetta e Melibea. Che se poi si tratti, proprio in questo caso, di imitazione o di mera coincidenza, sarebbe da indagare profondamente, anche se si sa che il Rojas conobbe la Fiammetta. Sta di fatto che le due protagoniste sono contraddistinte entrambe da un sottofondo chiaramente borghese, incapace di contenere i loro slanci affettivi, ma attivamente operante nel qualificare la loro caratteristica anti-cortese.

June Halle Martin già notava che l’ideale femminile descritto da Calisto è lontano da quello di Andrea Cappellano e più vicino a quello presentato dal Cortigiano484, ma forse si può andare oltre e vedere come Melibea, nella sua attuazione, si scosti anche dalla idealizzante descrizione che ne fa Calisto e si presenti più umana e dimessa, più consona ad una realtà quotidiana. Appunto un simile realismo segna i limiti in cui si muove Melibea e sottolinea anche la sua opposizione alle eroine sentimentali. Scompare in essa la fantasia cavalleresca, scompare la letterarietà dell’espressione (salvo, e in parte, nel momento della morte) e scompare il tormentoso e reiterato compiacimento del propio esame introspettivo. Eroina di un amore intenso, per cui può arrivare ad uccidersi, si pone decisamente fuori di ogni complicazione letteraria capace di soffocare quanto c’è di effettivamente valido nella sua posizione. In questo è particolarmente favorita dalla diversa forma espositiva che sostituisce la dinamicità del dialogo ai lunghi monologhi interiori o alla forma epistolare, anch’essa legata a una minuziosa relazione di situazioni spirituali più che di avvenimenti. Il cambio espressivo è già di per sé indice di una reazione che oserei chiamare polemica, poiché l’azione si impone e, se pure il dialogo non rinuncia ad alcuna raffinatezza psicologica, sposta violentemente il punto di vista, vivacizzando e calando in una realtà immediata ciò che poteva essere solo posizione meditativa.

Gli interlocutori di Melibea sono Calisto, Celestina e Lucrecia. Calisto, che dopo la sua poetica, affascinante presentazione nel giardino di Melibea si è andato costruendo nella fantasia della fanciulla con tutte le sfumature della più tenera passione, è trepidamente amato con delicatezze in cui la femminilità si confonde con la maternità; Celestina, lucidamente intesa come tentatrice, e tuttavia accettata come complice;   —230→   Lucrecia quasi passiva recettrice dei suoi tormentosi pensieri: tutti e tre -lo stesso Calisto nei colloqui con Melibea- sono dotati di uno spiccato senso della realtà. Melibea si muove nella realtà sin da quando appare nel raccolto ambiente familiare tra Alicia, sicura e indaffarata, e Lucrecia pettegola e loquace. La forza di questo ambiente è tale che la stessa Celestina, che poco prima aveva assunto gli attributi di una fosca stregoneria, si adegua mostrandosi non solo dimessa e bonaria, ma avvicinandosi anche, per quanto può, ad una rispettabilità conformistica. Per un necesario adeguamento, persino le angosce di Calisto si trasformano in un mal di denti tanto innocente eppur tanto doloroso da poter rientrare in una pietà ufficialmente consentita. È Melibea che impone questa trasformazione ribellandosi a un accenno più veritiero e accettando invece la menzogna che salva e tutela i suoi scrupoli. Se il suo sdegno si spinge a denigrare violentemente il povero Calisto («... Ese loco, saltaparedes, fantasma de noche, luengo como cigüeña, figura de paramento mal pintado...») il suo successivo pentimento come l’invito a Celestina di tornare il giorno dopo celano appena il suo interesse. Ma è soprattutto nel primo colloquio con Calisto (atto XII), dove il suo scrupolo moralistico diventa angoscia vibrante nell’opporre una resistenza tanto debole quanto coscientemente inutile:

-Desvía estos vanos y locos pensamientos de ti, porque mi honra y persona estén sin detrimento de mala sospecha seguras. A esto fue aquí mi venida, en dar concierto en tu despedida y mi reposo. No quiero poner mi fama en la balanza de las lenguas maldicientes.



Per culminare nell’espressione che è quasi un grido d’amore e il travolgimento di qualsiasi convenzione:

-Tú lloras de tristeza, juzgándome cruel; yo lloro de placer, viéndote tan fiel. ¡Oh mi señor y mi bien todo!485



La reazione violenta di Melibea, non contro l’ambiente verso il quale si sente traditrice, ma contro se stessa che non ha saputo disciplinare il suo amore, scatta quando ode il colloquio di Alisa e Pleberio che fanno progetti per un suo matrimonio con la tenerezza e la saggia previdenza di due buoni genitori per la figlia che vedono virtuosa e saggiamente orientata. La passione di Melibea è il drammatico contrasto a questo mondo che, per la sua normalità, non avrebbe storia: passione insana e fuorviante, ma sinceramente sentita. Lo scarto letterario delle   —231→   ultime scene della Tragicomedia sottolinea la retorica esaltazione che si sovrappone ad un sentimento drammaticamente vissuto.

L’indizio più vistoso del riferimento che Rojas fa alle novelas sentimentales è offerto dal pianto di Pleberio che imita molto da vicino il lamento della madre di Leriano alla fine della Cárcel de amor486. Analogamente sono molto simili l’invettiva contro l’amore detta dalla madre di Leriano e quella contro il mondo detta da Pleberio. Questi aggiunge il ricordo di esempi tragici chiaramente derivati dagli Apotegmata di Anassagora che, ritrovati dagli umanisti, ebbero rapida diffusione487. Il ricordo degli esempi antichi non consola il vecchio padre, ma aumenta la sua pena perché dal confronto vede che il suo male è maggiore. Ed anche questa conclusione è un topico delle novelle sentimentali: la stessa Fiammetta, dopo aver enumerato molte donne celebri sventurate, conclude: «Sí che ogni cosa pensata, io sola tra le misere mi trovo ottenere il principato»488. Allo stesso modo può intendersi l’invettiva di Pleberio contro l’amore. Tuttavia, nonostante questa marcata influenza, il «planctus» di Pleberio si distingue per le sue notazioni realistiche (il ricordo nostalgico di un’attività feconda che ora diventa improvvisamente inutile, l’invocazione alla moglie, il rimpianto dei propri anni giovanili) notazioni che se non riescono ad imporsi al dilagante   —232→   retoricismo, sembrano porsi come elementi di contraddizione non ingenua né involontaria.

Il sospetto si acuisce quando si considera la scena della morte di Melibea. Questa si articola nei due monologhi della fanciulla che si contrappongono quasi nettamente alle scene precedenti dominate dall’angoscia di Pleberio e dalla affettuosità di Lucrecia. Improvvisamente, Melibea -la dolce, umanissima Melibea- di fronte alla morte che ha già accettato, diventa fredda e letteraria. Il primo monologo è un’autodifesa per la «sinrazón» che sta per fare al padre. La difesa, che non può avere guistificazioni logiche né morali, cerca (come già aveva fatto Leriano) il suo appoggio in precedenti storici e mitologici. Ma Melibea capisce che questi non scono calzanti perché «estos fueron delitos dignos de culpabre culpa que, guardandos sus personas de peligro, mataban sus mayores y descendientes y hermanos».

Immediatamente dopo segue una critica più serrata che distrugge tutta la precedente autodifesa e, implicitamente, distrugge e ironizza l’uso delle consolatorie a base di reminiscenze culturali così frequenti nelle novelas sentimentales: «Verdad es que, aunque esto así sea, no había de remedarlos en lo que malhicieron; pero no es ya en mi mano».

Melibea si rende conto dell’asurdità delle sue precedenti esemplificazioni e aggiunge l’unica giustificazione accettabile «no es ya en mi mano». La spiega più ampiamente, aggiungendo: «Señor que de mi habla eres testigo, ves mi poco poder, ves cuán cautiva tengo mi libertad, cuán presos mis sentidos de tan poderoso amor del muerto caballero, que priva al que tengo con los vivos padres»489.

È la forza della passione e non gli esempi delle Autoridades quello che può giustificarla. Dio, invocato come testigo de mi habla, vede la sincerità patetica di queste ultime espressioni e non le artificiose comparazioni di cui si è fatto sfoggio.

Nel suo secondo monologo Melibea, infine, dichiara Pleberio:

Algunas consolatorias palabras te diría antes de mi agradable fin, colegidas y sacadas de aquellos antiguos libros que tú, por más aclarar mi ingenio, me mandabas leer; sino que ya la dañada memoria, con la gran pertubación me las ha perdido, y aun porque veo tus lágrimas mal sufridas descender por tu arrugada faz490.



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Il dolore vero non ammette erudite consolazioni. In effetti, quest’ultimo monologo di Melibea è semplice, vibrante di dolore. È un riassunto di tutto quello che è accaduto, ma detto nella sua essenzialità, nella sua verità schietta e nuda; è la semplice storia di un amore troncato dalla fatalità. Questa è la cosa più angosciosa: l’inesplicabilità del destino: «Cortaron las hadas sus hilos, cortáronle sin confesión su vida, cortaron mi esperanza, cortaron mi compañía».

Perché? E allora questa storia, che non ammette altra soluzione che la morte, non permette divagazioni e nemmeno l’intrusione di altri:

No la interrumpes con lloro ni palabras; si no, quedarás más quejoso en no saber por qué me mato, que doloroso por verme muerta. Ninguna cosa me preguntes ni respondas más de lo que de mi grado decirte quisiere. Porque cuando está embargado de pasión, están cerrados los oídos al consejo y en tal tiempo las fructuosas palabras, en lugar de amansar, acrecientan la saña.



Qui non c’è ironia, forse, ma una netta contrapposizione alle lunghe e complicate disquisizioni delle novelas sentimentales. A titolo esemplificativo, sarà opportuno ricordare, sulla scia del Samonà, come nel Grisel y Mirabella il Flores riduca l’elemento fiabesco a:

Pretesto per una lunga ed elucubrata divagazione oratoria [...] si tratta di un esile spunto narrativo che cede il passo, non un volta sola al debate sulle donne, ma tre volte almeno a diversi pretesti di oratoria: prima quello sul sorteggio amoroso, poi, dopo la sorpresa degli amanti, la gara di generosità che fra loro si svolge per addossare ciascuno su se stesso la maggior colpa, poi, finalmente il famoso debate fra Torrellas e Braçaida: ed è singolare che ogni nuova disputa superi la precedente in ampiezza e complessità di interventi oratorii e di risposte, stabilendo una progressione che quasi non si direbbe casuale...491



Ancora del Flores non possono dimenticarsi nel Grimalte y Gradissa492 le lunghissime lettere in cui Fiometa espone a Grimalte le sue pene d‘amore per l’infedele Pamphilo, così come quelle di Grimalte e dello stesso Pamphilo, lettere che terminano con una serie di versi che alambiccano in compiaciuti virtuosismi retorici i già diluiti sentimenti dei vari scriventi e le loro non complesse situazioni. Se l’attacco alle novelle sentimentali poteva essere abbastanza facilmente provocato dall’insofferenza verso una modalità letteraria e idelogica, esso si esprime efficacemente   —234→   mostrando come una situazione analoga possa essere presentata nella schiettezza delle sue passioni.

Qualche spunto simile nella Celestina e le novelas e la diversa soluzione che ne viene data fa pensare ancora alla contrapposizione polemica. Così, per es., Mirabella -come poi Melibea- non sopportando la morte di Grisel, si uccide gettandosi da una finestra. Prima di compiere l’atto insano lamenta la sua sobre e ciò che è accaduto. La madre di Mirabella si dispera quando sa che la figlia vuol lasciarsi morire e amaramente constata l’inutilità della sua ascesa e delle sue ricchezze. Questa volta è Rojas che amplia i due motivi, togliendo, tuttavia, il particolare truculento della fine di Mirabella dilaniata dai leoni che sono nel cortile in cui lei si è gettata e che non rispettano l’ascendenza regale della preda. Così ancora, nell’Arnalte y Lucenda493 l’assedio della protagonista da parte di Arnalte coadiuvato da Belisa può presentare qualche analogia con la Celestina, ma sono tutti motivi che se, da una parte, riportano a una tematica ampiamente diffusa, dall’altro indicano l’insofferenza per il modo come sono stati trattati. Lo stesso modo di riportare la vicenda in una forma dinamica e immediata com’è quella drammatica, segna la più vivace opposizione, se non addirittura la protesta. Se poi si pensa che l’altro protagonista della storia amorosa, Calisto, è apertamente deriso per le sue modalità cortesi che sono alla base delle azioni e dei lamenti dei suoi colleghi sentimentali, la riprovazione di uno specifico mondo letterario e concettuale risulta ancora più chiara.

Nella lettera-prologo El autor a un su amigo Rojas si autodescrive in un atteggiamento di statuaria meditazione («Retraído en mi cámara, acostado sobre mi propia mano, echando mis sentidos por ventores y mi juicio a volar») che si illumina improvvisamente per aver scoperto quanto grande sia la schiera de galanes y enamorados mancebos e, di conseguenza, quanto grande sia la necessità di un’opera che metta in guardia contro i pericoli dell’amore con defensivas armas. E queste armi (si noti la gustosa metafora iperbolica) «hallé esculpidas en estos papeles, no fabricadas en las grandes herrerías de Milán, mas en los claros ingenios de doctos varones castellanos formadas».

  —235→  

Come ben si sa, l’intento è parso decisamente moralistico494, ma lo è, poi davvero? Dopo aver enumerato i meriti artistici del manoscritto che dice di aver trovato, Rojas aggiunge: «Vi no sólo ser dulce en su principal historia o ficción toda junta, pero aun de algunas sus particularidades salían deleitables fontecicas de filosofía, de otros agradables donaires, de otros avisos y consejos contra lisongeros y malos sirvientes y falsas mujeres hechiceras».

Non si dà un posto preminente agli avisos y consejos che, al contrario, sono limitati ad una sola parte dell’opera, ma si pongono in rilievo anche i donaires e le fontecicas de filosofía, così come la ficción toda junta appare dulce.

Nemmeno particolarmente moralistico sembra il primo atto il cui momento culminante sarebbe la corruzione di Pármeno che perciò si allontana da Calisto lasciandolo completamente indifeso. In realtà nel I atto Pármeno non abbandona il padrone, ma si limita a dargli consigli dotati di buon senso. Se si considera il primo atto come opera di altro autore, non si possono proiettare su di esso i suggerimenti che derivano dagli atti successivi, e che possono cambiare il senso di alcune scene o darne una diversa proporzione. In un’opera a sé stante la corruzione di Pármeno è indubbiamente una delle scene più vivaci, ma non la più importante e significativa.

L’intento moralistico, rivolgendo l’opera a un pubblico limitato e culturalmente preparato, tale insomma da intendere la lezione, consentirebbe di pensare che l’opera fosse destinata a una lettura ad alta voce, piuttosto che alla rappresentazione. Ma, specialmente per un testo com’è quello della Celestina, cos’è una lettura ad alta voce se non una modalità teatrale minore, che rinuncia sí al linguaggio gestuale e scenografico, ma accentua il valore della recitazione e mantiene, in ogni caso, una comunicazione diretta col pubblico a cui mostra un’azione che si svolge gradualmente e che non è raccontata da un relatore? Se nella Celestina ci sono scene intensamente drammatiche presentate per mezzo di narrazioni fatte da alcune personaggi (per es., la presentazione di Elicia in lutto nell’ato XIV) quella della morte della mezzana è costruita sulla stessa scena momento per momento, così come quella che la precede   —236→   e psicologicamente la giustifica e che giustamente può chiamarsi la notte della paura di Sempronio e Pármeno495.

È stato già, e variamente, rilevato come nell’opera manchi un qualsiasi riferimento a un possible matrimonio tra Calisto e Melibea. Così, questo amore che non ha chiare finalità socialmente consacrate, è già condannabile di per se stesso: la sua fine tragica potrebbe essere un forte ammonimento a chi persegue analoghe modalità d’amore o, in altre parole, al seguaci dell’amor cortese. È che Rojas, probabilmente, non pensa a determinate situazioni sociali ma, da una parte all’amore in sé come sentimento e come ideale dall’altra alle modalità che alcune specifiche correnti letterarie gli avevano conferito, svirtuando o mascherando la sua essenza più vera. Il suo moralismo, forse suggerito, forse opportunisticamente voluto nei cinque atti aggiunti, non riesce a costringere l’opera nei limiti di una esemplarità da desengaño ma le consente di riflettere con ampiezza e con ironia o sarcasmo la realtà circostante in una gamma che comprende tanto le manifestazioni più dotte, quanto quelle più popolari, ma altrettanto macroscopiche. La loro attualità e la loro riproduzione ingigantita sono già segno e, allo stesso tempo, garanzia della loro presa sul pubblico o, se si vuole, della loro efficacia teatrale. In questo senso uno degli esempi più interessanti è quello offerto dalla hechicería della stessa Celestina.

I possibili precedenti letterari della vecchia mezzana non ricorrono alle arti magiche per raggiungere il loro intento: così la vecchia del Pamphilus e così Baucis del Baucis y Traso, la vetula del De cerdone e la stessa Trotaconventos. Acutamente la Rosa Lida osserva che la stregoneria non è elemento necessario perché Melibea ceda a Calisto; è un attributo in più della protagonista «yuxtaponiendo la solemne máquina sobrenatural al acontecer natural, conforme al ejemplo que en especial le brindaba la más prestigiosa tradición de la Antigüedad, la de la épica clásica...»496.

Se pure l’esempio classico poté avere la sua forza su Rojas, tuttavia è da tenere in conto che nel secolo XV, nel XVI e ancora nel XVII non solo in Spagna, ma in tutta Europa la stregoneria è un fatto attuale, trovando il suo momento e il suo centro di maggiore auge nella corte di Caterina dei Medici in Francia, come poi in quella di Filippo IV in   —237→   Spagna. E chi non ricorda che persino Santa Teresa credeva nella forza di alcune fatture? Secondo Luis Bonilla la alcahueta hechicera corrispondeva «a un tipo característico de mujer que no hay que confundir con la bruja auténtica, pero que simulaba tener conocimientos de encantamiento y artes componedoras, que lo mismo facilitaba a un buen precio una crema de belleza que un filtro amoroso...»497.

In campo letterario è facile ricordare l’inventtiva contro le fattucchiere dell’Arcipreste de Talavera come le ancor più famose coplas di Juan de Mena, ma né lo sdegno moralistico del primo, né l’intonazione classicheggiante e tenebrosa del secondo convengono a Celestina. Lo scongiuro che questa fa a Plutone sembra quello che può fare una povera vecchia di paese che ha imparato a memoria alcune formule e che le ripete a volte velocemente e con la scarsa convinzione di aver successo con esse, tanto che finisce imponendo addirittura un ricatto: «Si no lo haces con presto movimiento, ternásme por capital enemiga». E che dubiti del suo potere su Plutone è vero se aggiunge: «me parto para allá con mi hilado donde creo te llevo ya envuelto...» (la sottolineatura è mia)498. Infine, si ricordino gli avvertimenti a Elicia perché le porti la sua paccottiglia: indubbiamente Celestina è una strega casalinga.

Caro Baroja fa una distinzione fondamentale tra la strega tipica derivata da ambienti rurali e la hechicera di tipo classico più propria di centri urbani o di luoghi in cui la cultura urbana ha una grande influenza499. Considera quindi Celestina come corrispondente «perfectamente con tipos reales que podían encontrarse en las ciudades españolas (Toledo, Salamanca, Sevilla...) en los siglos XV y XVI». Aggiunge che anche gli elementi impiegati da Celestina per i suoi sortilegi amorosi corrispondono a quelli che sono minuziosamente catalogati negli atti dei procesi inquisitoriali contro le fattucchiere celebrati a Toledo e a Cuenca. Infine, per ciò che si riferisce più specificamente a Salamanca e alla sua vita universitaria, è almeno curioso ricordare la tradizione della cueva de Salamanca centro di stregoneria in cui predominò Enrique de Aragón (1384-1432), nipote del più famoso Enrique de Villena e perciò anche lui chiamato spesso Enrique de Villena.

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Se ci si attiene più strettamente al testo, si può notare che la prima volta in cui Celestina è indicata come «hechicera» è quando, nel I atto, Sempronio la propone a Calisto come capace di rimediare alle sue pene «una vieja barbuda, que se dice Celestina, hechicera, astuta, sagaz en cuantas maldades hay».

La stregoneria non ha qui niente di trascendentale: è, semplicemente, una notazione in più per definire la vecchia. Segue il ritratto che ne fa Pármeno che esalta la sua putería e poi, specificando, aggiunge: «Ella tenía seis oficios, conviene a saber: labrandera, perfumera, maestra de hacer afeites y de hacer virgos, alcahueta y un poquito hechicera».

Più sbrigativa ancora è la presentazione che ne fa Lucrecia ad Alisa: «-¡Jesús, Señora!, más conocida es esta vieja que la ruda. No sé cómo no tienes memoria de la que empicotaron por hechicera, que vendía las mozas a los abades y descasaba mil casados».

Quando Lucrecia elenca le sue attività, addirittura dimentica la stregoneria. Il tipo, tuttavia, doveva essere tanto comune, che nemmeno la specificazione dei suoi oficios basta ad Alisa per capire di chi si tratta: «-Todo eso dicho no me la da a conocer; dime su nombre si lo sabes»500.

Evidentemente la nota di hechicería non ha né spaventato né scandalizzato Alisa. D’altra parte, la stessa Celestina, mentre va a casa di Melibea, alla fine del monologo in cui scopre la gran paura che ha considerando i rischi della sua impresa, paura da cui non é affatto rassicurata dalla scongiuro che ha rivolto a Plutone, riduce i limiti del suo potere satanico per enumerare i vaticini favorevoli che possano darle coraggio. Nemmeno la stregoneria di Claudina (auto-proiezione amplificatoria della stessa Celestina) riesce a incutere spavento rassomigliando piuttosto a un gioco (il salto del cerchio, i diavoli che arrivano rotolandosi, il togliere denti all’impiccato con las tenacicas de pelar cejas, etc.)501.

Specificano ancora meglio questo aspetto esoterico di Celestina i riferimenti alla sua religiosità, con le sue pratiche completamente esteriori e la sua ipocrisia. La denuncia di un simile ibridismo superstizioso rientra in una riproduzione realistica della vita di un determinato ambiente,   —239→   ma è fatto con tono spensierato e burlone che provoca più una franca risata che profonde meditazioni. Con lo stesso tono era stata presentata la religiosità di Calisto «melibeo», adoratore del cordone mandatogli da Melibea, che va a messa per aspettare i risultati della missione della vecchia, e che, quando prega, paragona Sempronio ai Re magi con il gusto, più comico che provocatorio, di una iperbole sacro-profana.

Più soave, ma non perciò più religiosa, è Melibea. Basti qui ricordare soltanto come in lei nasca e prenda corpo l’idea del suicidio senza la più piccola preoccupazione del gran peccato che sta per commettere. Ed è altrettanto strano pensare che un’opera che dovrebbe essere moralistica non sfiori nemmeno il problema religioso. Anzi, l’atto IX in cui Celestina si gloria delle sue relazioni con «abades de todas dignidades desde obispos hasta sacristanes» sembra un attacco satirico contro i preti o, più ampiamente, contro la gente di chiesa. Straordinario coraggio in un converso? Ripetizione dell’anticlericalismo topico della produzione medievale? Forse è l’aggancio a una tradizione che non si limita al Libro de buen amor ma che scorre anche in tutta la commedia umanistica arrivando alle punte estreme del Janus sacerdos e del De cerdone. Come gli studenti di Padova o di Bologna, anche Rojas attacca il male, ma rispetta le istituzioni. Tuttavia, è interessante notare come la satira della falsa religiosità e quella della stregoneria ridicolizzino aspectti della vita contemporanea. La maniera con cui vengono presentate evidenzia il loro scopo di diversione colorista e di saporito e immediato gioco comico.

Esiste indubbiamente nella Celestina il gusto della rappresentazione realistica: un ulteriore esempio è offerto dal modo in cui vengono presentate le prostitute e i servi. Anche in questo caso gli antecedenti letterari non mancano, ma forse sarebbe opportuno sottolineare la posibile influenza umanistica non solo per l’immediatezza del rapporto, ma anche perché questa si avviava già alla compiaciuta e ilare rappresentazione che trionferà nella Venexiana e, in modo ancora più prepotente, nella commedia italiana del Cinquecento. Tuttavia, l’attenzione prestata ai due servi offre ora il maggiore interesse in quanto, forse, più innovatrice.

Innanzi tutto lo sdoppiamento dell’abituale figura del servo confidente e protettore se, da una parte, può corrispondere a un costume dell’epoca, consente di aggruppare in Pármeno gli aspetti più ingenui e primitivi (presupposti della sua evoluzione drammatica) e in Sempronio   —240→   quelli più scaltriti e pittoreschi. Pármeno, che viene corrotto e allontanato dalla sua istintiva dignità e fedeltà, può reppresentare il passato di Sempronio indurito nel disincanto, reso cinicamente pratico, grossolanamente erudito dalla frequentazione dei signori, ed esperto nel risolvere i loro casi apparentemente complicati, procurando anche il proprio vantaggio. A Sempronio, quindi, spetta quasi di diritto l’intervento che si potrebbe dire più litterario fatto (in modo antagonistico rispetto al padrone) dal punto di vista del più triviale buonsenso, di una sostanziale ignoranza e di una incapacità di comprensione. Sempronio non può che demolire gli atteggiamenti cortesi di Calisto, che, naturalmente, gli sembrano parossistici, ma con altrettanta energia protesta contro le ipocrisie di Celestina. Nel primo e nel secondo caso non si tratta di una insoferenza culturale o moralistica, ma, più semplicemente, di una affermazione della sua sbrigativa praticità che non ammette le finzioni -letterarie o opportunistiche che siano. Non è un caso nemmeno che nel I atto venga affidata a lui la satira di un altro motivo della letteratura di moda, quello del dibattito sulle donne.

Com’è noto, la lunga battuta di Sempronio ha come diretto antecedente il violento attacco alle donne fatto dall’Arcipreste de Talavera nel Corbacho, ma altri esempi non mancavano anche nelle «novelas sentimentales» dove, anzi, l’opposizione veniva controbattuta dalla difesa, ricordando in qualche modo le eccezioni che lo stesso Sempronio presenta nella sua diatriba. È per lo meno strano che un tale attacco venga affidato a un servo di cui si conoscono gli amori con la prostituta Elicia e l’amicizia con la mezzana Celestina; né meraviglia meno il suo inaspettato sfoggio culturale o la maniera in cui si esprime, servendosi di modalità proprie di una cultura di scuola, specie quando si osserva che il suo discorso sembra precedere in modo alquanto sconnesso. Sicché pare legittimo pensare a una denuncia sia dell’ampollosità dell’espressione dottrinale, sia della vanità di un dibattito sulle virtù e i vizi delle donne. Tanto più perché quando Sempronio ha posto fine alla sua elucubrazione, Calisto, che è preso dalla sua reale sofferenza di innamorato, con apparente ingenuità e sostanziale ragionevolezza domanda: «Di, pues, ese Adán, ese Salomón, ese David, ese Aristóteles, ese Virgilio, esos que dices, ¿cómo se sometieron a ellas? ¿Soy más que ellos?».

E poi, sottolineando la totale inutilità della lunga arringa: «-¿Ves? Mientras más me dices y más inconvenientes me pones, más la quiero. No sé qué es».

  —241→  

Il nome di Sempronio non è, come quello di Pármeno, un nome che rievochi un’aulica ascendenza culturale e non è nemmeno un nome parlante como quello di Calisto: è un volgare, comune nome da schiavo di epoca latina. E se, infatti, nonostante i suoi sviluppi sul piano psicologico, Parmeno è avvicinabile a uno dei servi terenziani, Sempronio ripete le funzioni che sono più realisticamente consone al suo ruolo e che, d’altre parte, lo portano a gestire l’azione secondo le normali consuetudini della commedia plautina. Né il distacco e l’ironia con cui considera alcune situazioni contraddicono le caratteristiche della sua procedenza e, direi, della sua essenza di servus fallax, anzi le confermano e aggiungono quel sapore di attualità che modernizza vivacemente i suoi interventi.

Rojas doveva conoscere bene Terenzio che era comunemente diffuso nella sua epoca e nel suo ambiente; della sua conoscenza di Plauto fanno fede, almeno in parte, i riferimenti all’opera plautina riscontrabili nella Celestina502. Plauto, inoltre, era troppo di attualità nell’ambiente umanistico per poter essere ignorato. Al centro di indagini filologiche testuali, era già stato assunto in Italia come autore di teatro da rappresentare e aveva già dato luogo alle prime imitazioni e derivazioni in lingua volgare. Non è il caso di ricordare né le rappresentazioni di Roma e di Ferrara, né le commedie dell’Ariosto, ma giova sottolineare l’entusiasmo con cui Plauto veniva rivisitato. In Spagna non c’era uguale entusiasmo, né simili lanci teatrali, ma certamente Plauto suscitava interesi vivaci se, a non molti anni di distanza dalla Celestina, era addirittura imposta nell’Università di Salamanca la rappresentazione annuale di una delle sue commedie503. Anche se lo scopo maggiore, in questo caso, era collegato all’apprendimiento del latino, ciò non toglie nulla alla considerazione in cui l’autore era tenuto.

Tuttavia, la conoscenza dei modelli antichi non impedì al Rojas di alterarli profondamente, assegnando proprio ai servi e a Celestina il destino più tragico. La morte violenta non aveva mai concluso nelle produzioni antecedenti la vita delle varie vetulae mezzane, così come non aveva mai colpito i servi plautini o terenziani i quali, al contrario, proprio   —242→   nello scioglimento finale dell’intrigo potevano cogliere il trionfo della loro attività e dei loro imbrogli. Ma non solo nessuno dei servi (e includo in questo nome anche la mezzana) plautini e terenziani muore tragicamente, ma nemmeno si trovano esempi del genere in quelle opere che costituivano un facile repertorio di argomenti per novelle e commedie come Aprocone e Anzia di Senofonte di Efeso che Enea Silvio Piccolomini aveva tradotto dal greco in latino, e gli Erotica Patemata attribuiti a Partenio di Nicea504.

La mancanza di finali tragici nella commedia latina si giustifica facilmente con la stessa netta distinzione del genere comico da quello tragico. Anche la produzione teatrale italiana del secolo XV e XVI conservò la stessa netta distinzione tra il mondo basso mimetico e quello alto mimetico e solo quest’ultimo ebbe il privilegio dei grandi sentimenti che possono portare alla morte. La tragedia non conviene agli umili. Nella Cárcel de amor la madre di Leriano nel suo pianto afferma: «Bienaventurados los bajos de condición y rudos de ingenio que no pueden sentir las cosas sino en el grado que las entienden...».

Lo stesso Rojas, di fronte alle perplessità e proteste dei suoi amici si decide a cambiare il nome di comedia in quello di tragicomedia («Partí agora la porfía y llamela tragicomedia...») dato che l’opera comincia col placer e finisce en tristeza, ma questo giudizio salomonico è forse meno semplicistico di quanto sembri, perché si oppone a una tradizione vigorosa e perché del tutto insolito nell’epoca. Usando il nuovo termine, Rojas si mostra ancora attento lettore di Plauto che solo una volta, nell’Anfitrione, impiega la parola tragicommedia per il rilievo che in questa commedia era dato al servo. La parola era poi caduta completamente in disuso. Riappare impiegata da Carlo e Marcellino Verardi per il loro dramma a lieto fine, il Fernandus servatus. Riaffiorerà con nuovo vigore solo nella seconda metà del Cinquecento per designare il nuovo genere che si cercava di far nascere tra le disquisizioni del Giraldi Cinthio, gli esperimenti del Bargagli, del Caro, dello Sforza -Oddi e le affermazioni del Guarini.

La decisione presa dal Rojas con piglio così ironico mostra l’insofferenza verso le inutili discussioni, come la volontà di difendere l’unità   —243→   dell’opera che non può essere alterata da marginali questioni terminologiche. La stessa perfetta conseguenzialità che regge i vari episodi si verifica anche per la morte dei servi che si è andata maturando lentamente sin dall’atto V, quando Sempronio comprende che Celestina non dividerà mai il guadagno dell’impresa; si è acuita nella notte della paura ed è poi esplosa nella rissa che si conclude nell’omicidio. Cupidigia ignobile rinfocolata da altre ignobili passioni, non lotta contro la fatalità, né catastrofe di irrangiungibili idealità. Non ne segue -nemmeno nella favola- una catarsi, ma la vendetta della prostituta Elicia. Forse è proprio in questa impossibilità di catarsi la maggiore opposizione a una finalità moralistica: la morale che si può derivare è solo quella elementare e convenzionale offerta dalla morte dei colpevoli.

Una così netta opposizione ai canoni della commedia latina è una violenta e voluta trasgressione del codice teatrale vigente. La conclusione mi sembra tanto ovvia da diventare quasi una ripetizione. Come si è dichiarato contrario alla produzione cortese, così Rojas si mostra avverso a forme troppo vincolate al mondo classico. Plauto e Terenzio fanno parte del bagaglio erudito accademico: il sovvertimento dei loro schemi è la reazione più appariscente e, allo stesso tempo, più innovatrice possibile. Del resto, se tutto il mondo è guerra («¿Quién explanará sus guerras, sus enemistades, sus envidias, sus aceleramientos y movimientos y descontentamientos?...») anche l’opposizione a modalità letterarie scontate può essere «contienda o batalla»; ma da questa battaglia nasce la vita, così come aveva detto il Petrarca e il Rojas ripete: «Sin lid y ofensión ninguna cosa engendró la natura madre de todo». La sua opposizione non è distruttiva e si lancia verso il futuro. La critica alla produzione contemporanea, resa possibile dalla libertà universitaria e incoraggiata dagli esempi della commedia umanistica italiana, dà l’avvio all’opera del Rojas aggiugendole il gusto immediato della polemica e della novità. Al di là di questa posizione iniziale -che si potrebbe dire anche occasionale- Rojas approfondisce i suoi personaggi con tutte le più acute intuizioni psicologiche, con tutti i riflessi del loro ambiente sociale e li fa esprimere mediante il dialogo più sorprendente e forse più completo di tutto il teatro europeo cinquecentesco.

Un secolo più tardi la stessa cosa accadrà a Cervantes: la protesta contro uno specifico genere letterario gli darà l’avvio a creare uno dei capolavori di ogni epoca.